se si ferma il blog, non vuol dire che si è fermata ecoart 2007....
la cosa continua a lievitare come una pagnotta messa a riposare sul davanzale.
il ponte è servito per gettare ponti tra passato e futuro, tra noi e loro, tra realtà e utopia, tra acqua e terra.
Intanto pubblichiamo un pezzo del nostro Flaviano Bosco, che da grande esperto di cinema ci illumina sull'arte del nostro nume tutelare, l'immenso Werner...
Buona lettura!!!
(qui pubblichiamo solo una parte del pezzo che ci ha inviato Flaviano, per leggerlo tutto, CLICCA QUI)
La grande estasi dell’intagliatore Steiner (Die Grosse Ekstase des Bildschnitzers Steiner 1973) di Werner Herzog
Uno degli affreschi più singolari e simbolici di tutta l’arte antica è quello che orna la lastra di copertura della tomba del tuffatore di Paestum. Databile tra il 480-470 a.C., è ritornato alla luce solo nel 1968 ed ha rivoluzionato secoli di congetture e ipotesi sulla pittura degli antichi greci che, fino ad allora, veniva ricondotta semplicemente a quella vascolare. L’affresco raffigura il volo di un tuffatore nel momento immediatamente successivo allo stacco dalla piattaforma e subito prima di piombare nell’acqua di un fiume.
E’ un istante di sospensione, congelato in un’immagine che dopo più di ventiquattro secoli ha ancora la forza di colpire profondamente il nostro immaginario.
L’essenzialità del tratto e del gesto atletico che rappresenta hanno fatto in modo che il ritratto del misterioso atleta sia stato interpretato nei modi più disparati. Per alcuni è diventato l’allegoria dell’esistenza umana, di quel volo a parabola che dal grembo materno, in un battito di ciglia, ci consegna tra le braccia del tristo mietitore, sprofondandoci nel mare della morte.
Per altri, dallo spirito meno ossianico, il tuffo sarebbe la rappresentazione plastica dello slancio vitale di chi osa vivere nonostante il precipizio verso il quale sta inabissandosi. E’ un gesto muscolare e allo stesso tempo metafisico che, alla gravità e al nulla della morte, oppone lo stile e l’armonia, all’effimera parentesi della vita dell’uomo, la levità e la leggerezza della sospensione.
A partire da questa immagine e da questi concetti così singolari è possibile esplorare un aspetto della creatività di Werner Herzog tra i più sorprendenti e purtroppo, spesso colpevolmente, trascurato dalla critica cinematografica più parruccona.
In generale assistendo ai film del regista non si ha alcuna impressione di fragilità o di leggerezza. Anzi è più facile che ci venga da pensare al contrario. Una pesantissima nave trascinata con uno sforzo immane su per una collina in Fitzcarraldo; la marcia dei conquistadores, con corazze e cannoni, nella giungla amazzonica in Aguirre; l’estenuante scalata al Cerro Torre in Patagonia di Grido di Pietra; gli effetti dei bombardamenti e le devastazioni della prima guerra del Golfo in Apocalisse nel deserto e via di seguito.
Alcuni particolari, al di là delle apparenze, finiscono però per farci intuire un’altra possibilità, un’altra interpretazione. Gradualmente, quella che all’inizio pare solo un’impressione, poco più che una sensazione epidermica, diventa una certezza, quasi un’insospettabile verità.
Si pensi ai fuochi d’artificio sparati contro il cielo dal pazzo Stroszek in Lebenszeichen (Germ 1967), alla magnifica sequenza della farfalla nel finale di Mein Liebster Feind (Germ, GB 1999) o ancora alle note eteree e rarefatte che sottolineano le atmosfere di tutti i film di Herzog , prima, durante e dopo la collaborazione con Florian Fricke. Sarà così subito chiaro che il cinema del regista tedesco, che appare così fisico e materico, è in realtà tutto proteso verso l’immaterialità del sogno.
Della grande impresa, dello sforzo titanico, dell’avventura più estrema, Herzog cerca sempre di cogliere gli istanti di sospensione, di esitazione e in un certo senso di quiete. Non gli interessa tanto la tempesta ma, mi si passi la similitudine, il momento che immediatamente la precede, quando tutto può ancora accadere, quando l’incertezza e la tensione degli elementi è massima. Oppure l’istante che segue la buriana, quando ormai non c’è più niente da fare, quando gli eventi hanno già fatto il loro corso, e lo sguardo è libero di spaziare sull’orizzonte, in un certo senso, commemorando ciò che è stato.
L’occhio di Herzog si libra su in alto e dalle vertiginose altezze osserva, per poi precipitarsi giù nelle profondità più oscure dell’animo umano. Non c’è occasione migliore per comprenderlo che il film, La grande estasi dell’intagliatore Steiner.
Lo svizzero Walter Steiner è stato uno dei più grandi campioni che la storia del salto con gli sci ricordi. La sua gloria gli viene non soltanto dai suoi risultati agonistici e dalle sue vittorie, già di per se straordinari e rilevantissimi, ma dall’assoluta perfezione del suo stile e dalla grazia che seppe infondere al proprio sport, apparentemente così temerario e pericoloso. Vinse le olimpiadi invernali del 1974 e del 1977, a Oberstdorf in Austria nel 1973 Stabilì il record mondiale di salto dal trampolino atterrando incolume, è il caso di sottolinearlo, dopo un volo di 179 metri.
Herzog in gioventù praticò il salto con gli sci ed è ancora oggi un grande appassionato non solo di quella disciplina ma di tutti i cosiddetti sport della montagna. Nel 1973 non si fece sfuggire l’occasione, quando gli venne proposto dalla televisione di stato tedesca di realizzare un documentario su uno dei suoi idoli.
La grande estasi…, in questo senso, è anche la prova di come sia possibile fare televisione con intelligenza, utilizzando il catodo come mezzo d’espressione autentica senza, per forza, dover abdicare ai suoi fantomatici ritmi e alle esigenze di palinsesto.
Il regista si rappresenta nelle vesti di un singolarissimo telecronista che, con garbo e partecipazione, indaga sulle motivazioni e sulla tempra del campione. A posteriori, questo lavoro di Herzog giornalista, per così dire, gentile, ci fa capire quanto sia degenerato, nel breve spazio di qualche decennio, il giornalismo sportivo; oggi tutto giocato purtroppo sulla violenza del linguaggio e sul ritmo sincopato di immagini che hanno come unico scopo quello di far risaltare i logo degli sponsor.
Il film di Herzog si situa dichiaratamente a partire da un limite, quello segnato dal paletto che ricorda il punto esatto nel quale Steiner tocco terra dopo l’impresa del record. Oltre quel punto, si dice nel film, il salto con gli sci diventa inumano.
E’ un po’ questa la cifra di tutto il cinema di Herzog e cioè spingersi fino ai limiti estremi dell’esperienza umana, non per vederne la fine, ma per iniziare proprio dal confine di ogni possibilità, per provare l’esperienza assoluta dell’orlo della vita, del suo limite, del possibile e dell’im-possibile.
Il volo di Steiner diventa metafora di quel tipo di ricerca estetica che consegna il suo gesto, attraverso l’elaborazione di Herzog, definitivamente al mito.
Quella per il volo e per le vertiginose altezze è una delle ossessioni di Herzog non solo dal punto di vista cinematografico. E’ del 2004 un suo magnifico lavoro, che può anche essere interpretato come una bizzarra e avventurosa storia dell’ aviazione (The White Diamond, Uk/Germ).
Quanto sia fondante per il suo immaginario l’esperienza del salto con gli sci, lo testimoniano alcune meravigliose sequenze di un altro film del regista bavarese che in un certo senso fungono da antefatto al reportage su Steiner.
La protagonista del Paese del silenzio e dell’oscurità (Land des Schweigens und der Dunkecheit, 1970), la sordocieca Fini Straubinger, comunica con il mondo esterno (rispetto al suo handicap) attraverso una particolarissima sensibilità tattile, che le permette di esprimersi sfiorando le mani dei propri interlocutori secondo una sequenza stabilita dal linguaggio dei sordociechi. Herzog attraverso di lei ci conduce, letteralmente per mano, in uno tra i territori più estremi dell’esperienza umana quello del buio della menomazione nel quale comunque alcuni individui, diversamente dotati, conducono la loro durissima esistenza. Rivelatore è una sorta di sogno che la Straubinger racconta con le mani:
Da bambina, quando potevo ancora sentire e vedere, avevo assistito ad una gara di salto con gli sci; e quest’immagine ritorna sempre nella mia testa, come questi uomini volavano nel cielo. Vidi i loro volti molto da vicino…Mi piacerebbe che anche voi poteste vederli un giorno.
A Herzog però non interessa solo l’atleta Steiner, il campione del mondo, il personaggio pubblico.
Il suo sguardo vuole scoprire l’uomo che c’è dietro all’idolo delle folle, al supereroe dello sport, all’invincibile profeta del trampolino.
Per questo nel film ci troviamo davanti alla rappresentazione di un essere spesso sorpreso in momenti di fragilità assoluta, titubante, pieno di dubbi, l’esatto contrario del folle senz’ali che vola dai pendii innevati delle montagne e che gioca la propria vita, ogni volta solo per sport.
Herzog insiste molto sulla solitudine e sulla sensibilità del saltatore che però non rappresenta mai come l’eroe tragico della tradizione, il superuomo d’acciaio osservato nei rari momenti d’intimità, come vuole una certa retorica giornalistica. Per cogliere la vera essenza della personalità di Steiner, il regista ci mostra aspetti della personalità del campione che non riguardano assolutamente la sua attività di sportivo.
A questo proposito, una delle usuali, spericolate similitudini (nessi analogici) di Herzog, presenti in questo film come in molti altri, ha lo scopo di coniugare, con una parabola narrativa, due attitudini di Steiner che apparentemente non hanno nulla in comune tra loro.
Il campione di salto con gli sci è anche raffinato intagliatore di figure nel legno; Scultore di tronchi d’albero come è nella migliore tradizione dell’artigianato alpino. Lo stesso Steiner afferma nel film che il suo scalpello cerca di far scaturire, mettere in evidenza, quell’energia che la natura ha racchiuso nel legno.
Herzog, almeno visivamente, associa i voli di Steiner con gli sci, al suo lavoro di intagliatore, quasi a voler dire che l’atleta scolpisce anche l’aria così come il legno, traendone una forza straordinaria, creando nell’aria figure nuove, facendo della scultura un’arte aerea e leggera.
Sono fantasie, certo, iperboli narrative, semplici associazioni di idee, ma è proprio questo uno dei grandi pregi del cinema di Herzog, cioè quello di aprirsi continuamente all’interpretazione, permettendo all’immagine e all’immaginazione (dello spettatore) di costruire sempre nuovi scenari, riconfigurando continuamente il visibile e l’invisibile.
Per comprendere questa tesi, che sembra una farneticazione, è necessario contestualizzare Die Grosse Ekstase nella filmografia di Herzog. Sarà così immediatamente evidente quanto denso di significati simbolici sia ancora oggi il volo di Steiner.
A titolo di esempio si veda The Wild Blue Yonder del 2005 (L’ignoto spazio profondo, Uk/Fr), il risultato più riuscito ed estremo, almeno fino ad ora, del documentarismo astratto di Herzog che già negli anni 70 andava prendendo forma e raffinandosi con capolavori come Fata Morgana, Land des Schweigens, ecc.
Nelle ultime scene del film, alcuni fantomatici astronauti mandati ad esplorare lo spazio profondo ritornano sulla terra e si trovano, per uno scherzo dello spazio tempo, proiettati in un lontanissimo futuro quando il nostro pianeta sarà ritornato alla propria primitiva e selvaggia bellezza, naturalmente solo dopo che l’umanità sarà stata sterminata dal solito terribile morbo degno di ogni apocalisse fantascientifica.
Le parole che la voce fuori campo recita, mentre scorrono le immagini, del pianeta finalmente ritornato verde, sono praticamente le medesime dell’epitaffio che chiude La grande estasi…, a riprova di quella continuità narrativa e d’ispirazione che carsicamente collega tutte le opere di Herzog in un fiume di emozione e sentimento
Io vorrei essere solo al mondo,
io Steiner e nessun altra forma di vita.
Niente sole, niente cultura,
io solo sopra un’alta roccia,
senza tempeste, senza neve,
senza banche, senza soldi,
senza tempo e senza respiro.
Allora di sicuro non avrei più paura.
Gettare uno sguardo oltre le frontiere dell’umano, vedere, anche se per un solo istante, l’immagine di un mondo incontaminato e selvaggio nel quale la purezza e la bellezza non possano essere sfiorate dalla brama e dal desiderio degli uomini. E’ questa forse la più grande utopia dell’arte di Herzog: spingere la propria immaginazione là dove nessun essere umano potrà mai mettere piede.
L’umanità è solo una meteora che in un breve istante si consuma nel cielo della storia del cosmo; il futuro,probabilmente, non prevede la nostra presenza; la vita, la natura minerale e biologica del nostro pianeta, prima o dopo, finirà per riappropriarsi degli spazi che artatamente gli abbiamo sottratto, e allora saranno i silenzi e la calma dell’incoscienza, o meglio, dell’ a-coscienza. Non sembri un paragone irriverente ma vengono alla mente i versi di una vecchia canzone dei Nomadi:
Nemmeno un grido risuonerà…
E catene di monti coperte di neve
Saranno confine a foreste di abeti
Mai mano d’uomo le toccherà
E solo il silenzio come un sudario si stenderà
Fra il cielo e la terra, per mille secoli almeno
Ma noi non ci saremo.
Il tuffatore di Paestum, il saltatore Steiner, gli esploratori spaziali, nell’immaginazione di Herzog, e secondo l’interpretazione che si è scelta, sono così uniti dalla vertiginosa arditezza del loro salto, simbolo della sfida dell’umanità intera all’ignoto, sotto qualunque forma esso voglia presentarsi.
mercoledì 7 novembre 2007
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